Stefano Cattinelli

Accompagnamento empatico alla fine della vita: la differenza tra accanimento terapeutico e cure palliative

Nel percorso di accompagnamento empatico alla fine della vita a fianco del proprio animale ci si imbatte spesso in un preciso punto del percorso dove ci si trova a scegliere la strada giusta da seguire.

In tutta franchezza si può dire che il percorso di accompagnamento empatico è sempre caratterizzato da momenti di profonda crisi interiore.

Che strada devo scegliere? Qual è la scelta giusta? Sto facendo la cosa giusta?

Le domande e i dubbi ricorrenti che nascono in questi momenti di difficoltà devono fare inoltre i conti con il profondo dolore emozionale che si vive nel vedere che un pezzo della propria vita, un pezzo del proprio cuore, sta sparendo sotto i propri occhi.
Fare la giusta scelta e agire di conseguenza è spesso un percorso tortuoso e in salita, con movimenti altalenanti e tumultuosi che oscillano tra i pensieri e i sentimenti.

In questo articolo ci occuperemo di un punto preciso di questo cammino, o meglio di una linea e cioè della linea che separa l’accanimento terapeutico, il lasciare andare e le cure palliative.

Partiamo da quando andiamo dal veterinario e da quando veniamo a sapere che i sintomi che si aveva notato da qualche tempo nel proprio animale, attraverso gli esami diagnostici proposti dal veterinario curante, portano ad una diagnosi drammatica e senza ritorno.

Da quel preciso momento ogni veterinario, “addestrato” dall’impostazione scientifica a dover combattere le malattie con tutti i mezzi a disposizione, inizierà con voi un percorso terapeutico rivolto a contrastare i sintomi della malattia diagnosticata.

A prescindere dalla gravità della diagnosi, e quindi della malattia oggettiva, ogni professionista tenderà ad impostare una serie di atti terapeutici con la speranza che qualcosa comunque accada.
Tendenzialmente più la malattia è grave e più le terapie saranno intense sia come numero di farmaci sia come tipologie di molecole utilizzate.

Le terapie a base di cortisone, date in quasi tutte le patologie gravi, hanno il duplice effetto di togliere l’infiammazione ma anche di stimolare il metabolismo dando spesso una scossa iniziale in grado di stimolare un’effimera sensazione di benessere nell’animale.

Qualunque impostazione terapeutica ovviamente, in un primo tempo, ha senso perché il “non si sa mai” permette di lasciare il tempo necessario all’organismo di reagire alle terapie proposte.

Pur avendo un approccio terapeutico molto diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale anch’io mi sono trovato moltissime volte spiazzato rispetto alle incredibili risorse messe in scena dall’organismo animale.

Quindi inizialmente è proprio giusto iniziare una terapia in grado di vedere se l’animale è in grado di reagire oppure no.
Ovviamente usare un approccio chimico o uno come quello omeopatico, che riconoscendo l’energia vitale la sostiene invece di andargli contro, è oggettivamente molto differente.

Comunque, come si diceva, il primo approccio terapeutico ha un senso profondo e si potrebbe riassumere in una domanda; una domanda che si fa all’animale: quello che ti propongo (come terapia) ti può aiutare a stare meglio?

Si inizia così la somministrazione dei farmaci (o dei rimedi).
Inizia così il cammino lungo la sottile linea dell’accanimento terapeutico.

La linea tra accanimento e cure palliative è tenuta in piedi da due persone: il veterinario che dà le terapie e la persona che materialmente fa le terapie.

Il veterinario spesso sa che di fronte a certi casi le terapie prescritte non possono avere una tensione di tipo terapeutico nel senso che l’animale non potrà guarire.
La persona che fa le terapie, quello al quale l’animale si affida e fa riferimento, invece, spesso la pensa diversamente.

Di fronte a diagnosi gravi il veterinario sa che qualcosa bisogna fare e qualcosa bisogna prescrivere anche se a volte viene freddamente proposta anzitempo l’eutanasia.
La persona, giustamente, non vuole arrendersi e vuole tentare ogni cosa per poter cambiare lo stato delle cose.

Spesso mi sono trovato ad essere una tappa del viaggio di persone che nonostante tutto speravano nel miracolo.
In ogni caso, con il passare del tempo la persona si troverà a somministrare all’animale la terapia, come ad esempio le flebo, impostata nel momento nel quale il problema ha avuto la sua diagnosi.

Dopo che è passato un po’ di tempo, se ci riferiamo a patologie gravi, tendenzialmente il problema è rimasto, cioè l’animale soffre ancora degli stessi sintomi, a volte si sono anche aggravati, e la persona si trova a fare un tipo di terapia che era stata impostata quando si pensava che l’animale potesse ancora reagire.

Eccoci al nocciolo di questo articolo e qui voglio spiegarmi davvero bene perché ho visto, per esperienza, che è un passaggio fine, delicato e foriero di molti fraintendimenti.

La terapia impostata al momento della diagnosi, fatta spesso per fare reagire l’animale, dopo un certo tempo che l’animale non reagisce perde il suo senso di esistere.
Attenzione!

Non solo perde il suo senso, e cioè non è più utile perché non è più consona al momento che l’animale sto vivendo in quel momento, poiché la speranza di fare reagire l’animale ha perso di significato, ma rischia di fatto, proprio perché è stata scelta a partire da una situazione diversa, di essere controproducente,
Un conto è offrire al paziente, attraverso un tipo di terapia, un’opportunità di reagire e un conto è offrire la stessa possibilità quando il paziente non può più reagire.

Sono due cose molto diverse che determinano nell’animale esperienze (anche di dolore) molto diverse.
(nel precedente articolo che potete trovare sul mio sito è affrontato il tema del dolore animale a partire dalle scelte umane).

Per comprendere meglio questo passaggio conviene fare un esempio pratico: immaginiamo che una macchina abbia difficoltà a partire; si decide allora di spingerla in modo che possa mettersi in moto. Se la macchina riparte si potrà allora smettere di spingere e salire a bordo, se non riparte e si spinge ad oltranza si rischia di esaurire le forze e di provare dolore nei muscoli.

Se le terapie impostate al momento della diagnosi funzionano, nel senso che l’organismo in qualche modo “riparte”, allora posso pensare di sostenerlo con le stesse terapie ma se l’organismo non ne vuole sapere di “ripartire”, perché alcune funzioni di base sono compromesse, ed io insisto …ecco che mi sto accanendo terapeuticamente.

Poiché ogni accompagnamento è diverso dall’altro non ci sono protocolli da seguire che ci indicano esattamente quando è il momento giusto per fare questo passaggio; le nostre guide sono piuttosto le sensazioni, le intuizioni e il colloquio empatico con il nostro animale.

Da quel momento in poi inizia eventualmente un altro tipo di approccio terapeutico, completamente diverso da quello precedente; questo approccio è rappresentato dalle cure palliative.
Le cure palliative sono completamente diverse dalle terapie impostate all’inizio del percorso terapeutico.

Se le terapie rimangono le stesse, anche quando l’animale non ha più risorse per reagire, vuol dire che abbiamo sconfinato nella zona dell’accanimento terapeutico.

La principale diversità delle cure palliative, rispetto alle cure precedenti, sta nello scegliere farmaci, o rimedi, che non abbiano alcuna tensione terapeutica.
Questa tensione non deve essere presente né in chi dà la terapia (veterinario) né in chi fa la terapia (la persona che accudisce l’animale).

Il veterinario e persona che accudisce l’animale, insieme, sceglieranno come muoversi e quali strategie usare per rendere più confortevole all’animale questo suoi ultimi momenti di vita.

Ed è qui, solo da questo momento in poi, che viene richiesto alla persona di sperimentare il “lasciar andare”.
Non prima e non dopo.

Ogni fase ha le sue motivazioni. Ogni motivazione ha le sue azioni; ogni azione ha il suo risolto pratico esteriore ed interiore. Ogni azione influisce sull’animale.
Noi siamo sempre legati ai nostri animali, dall’inizio alla fine della nostra storia insieme.

Spero di avervi aiutato a dipanare una matassa spesso aggrovigliata.

Per approfondimenti; Tenersi per zampa fino alla fine scritto insieme alla tanatologa Daniela Muggia, Amrita edizioni.

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Dott. Stefano Cattinelli
Medico Veterinario esperto in omeopatia

www.stefanocattinelli.it
www.armonieanimali.com

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