Speranza, accanimento e accettazione nella morte naturale
Una delle fasi più complesse che ci troviamo ad attraversare nell’accompagnare l’animale a morire naturalmente, invece di praticare la strada dell’eutanasia, è rappresentata dall’accettazione della realtà.
La speranza che le cose cambino, che si possa trovare una nuova terapia, che si possa trovare qualche “luminare” in grado di cambiare le cose, deve spesso fare i conti con una malattia cronica degenerativa, o anche acuta fulminante, che lentamente consuma il corpo.
La cera della candela si sta inesorabilmente consumando.
È prioritario, in tale frangente, mettere ordine ai tentativi terapeutici fatti fino a quel momento.
Quanto stanno realmente servendo tutti gli sforzi terapeutici che mettiamo in campo per rallentare o bloccare la patologia?
Come reagisce l’organismo rispetto alle proposte curative che gli offriamo?
L’osservazione oggettiva ci àncora alla realtà e ci obbliga a fare i conti con quello che sta realmente accadendo.
Questo è un bene perché la percezione obiettiva corrisponde esattamente al momento che sta vivendo l’animale.
È chiaro che una parte di noi fa una fatica enorme a riconoscere che la situazione sta evolvendo verso la fine della relazione tuttavia è altrettanto importante riconoscere che tale passaggio di coscienza è quanto mai necessario per affrontare nel modo migliore la morte naturale dei nostri animali.
Un cane da caccia che insegue la sua preda non vede nient’altro che quella; il suo obiettivo, a prescindere dai fossi da saltare, dai rovi da attraversare e dagli ostacoli da superare, è quello di raggiungerla.
La parola “ac-cani-mento”, etimologicamente, contiene in sé il concetto del cane che insegue la sua preda.
L’accanimento corrisponde dunque ad un tipo di percezione che sposta il piano della realtà verso l’obiettivo da raggiungere; la realtà nella quale viviamo non è quindi quella che vediamo ma quella che vorremmo vedere.
L’obiettivo non è ancora raggiunto, la preda sta ancora scappando e più si allontana più aumentano gli sforzi che vengono messi in campo.
Tale tensione, che viene alimentata dalla speranza, sposta il focus della nostra osservazione da quello che è a quello che vorremmo che fosse.
Rimanendo ancorati a questo livello di percezione ci perdiamo per strada l’oggettività della realtà e quindi non vediamo, non riconosciamo e quindi non portiamo a coscienza i messaggi che ci comunica il corpo dell’animale.
Messaggi che non richiedono di essere interpretati o analizzati ma semplicemente accolti per quello che sono.
In un contesto di una malattia cronica o degenerativa un animale che si allontana da noi quando ci avviciniamo con la terapia non rappresenta un messaggio che deve essere interpretato da uno specialista.
La realtà, quando siamo disposti ad accoglierla, è semplice ed immediata.
In quel momento la nostra coscienza ci fa rendere conto che tra noi e lui, o lei, esiste una sorta di pendolo che ha sempre oscillato tra le due esigenze.
Veniamo prima noi o lui?
La tensione che si crea tra la speranza e la realtà oggettiva corrisponde al pendolo che oscilla tra le nostre necessità di continuare a mantenere in piedi la relazione e le necessità del suo organismo a lasciarsi andare.
Possiamo così definire le forze che portano verso di noi con il nome egoismo nel senso che alimentano quella parte della nostra personalità che mette al centro le proprie necessità escludendo l’altro.
Possiamo definire invece l’oscillazione che va verso l’animale con il nome di altruismo, nel senso che, con tale gesto, mettiamo al centro della nostra percezione l’altro che in questo caso è l’animale.
Nell’altruismo l’altro viene incluso nella nostra percezione, nell’egoismo invece viene escluso.
L’amore, nella sua essenza, è sempre inclusivo.
Se vogliamo finire con amore quello che con amore è incominciato l’accettazione della realtà per quella che è rappresenta un passaggio di coscienza necessario.
Dott. Stefano Cattinelli